Cosa significa fare cucina italiana all’estero? È imprescindibile l’utilizzo di ingredienti italiani affinché questa cucina possa dirsi autentica? Perché l’alta cucina francese ha sempre goduto di una posizione privilegiata rispetto a quella italiana, spesso identificata soltanto con il binomio pasta e pizza? L’abbiamo chiesto all’Ambasciatore del Gusto Luca Fantin. Lo chef veneto, formatosi nelle cucine di Carlo Cracco e Gualtiero Marchesi, passato per l’Akelarre di Pedro Subijana e per il Mugaritz di Andoni Luis Aduriz e poi sous chef di Heinz BeckLa Pergola, dal 2009 è alla guida del Il Ristorante nella Bulgari Ginza Tower di Tokyo che nel 2015 cambia nome in Il Ristorante Luca Fantin proprio in onore al professionista italiano.

«Parlare di ristorazione italiana all’estero è molto complesso perché noi italiano non siamo bravi come i francesi nel valorizzare la nostra cucina», sottolinea Luca Fantin che abbiamo incontrato a Care’s, evento co-organizzato dall’Ambasciatore del Gusto Norbert Niederkfler.  «All’estero i grandi della cucina francese, da Robuchon a Troisgros, da Ducasse a Gagnaire, hanno portato la loro identità. L’immagine della cucina italiana, invece, forse a causa dei tanti cuochi con poca reale esperienza che hanno esportato piatti più comprensibili – continua – è molto legata a spaghetterie e pizzerie che, nell’immaginario di chi non è italiano, rappresenta in toto la gastronomia di casa nostra». «Arrivare in un Paese di alta cultura gastronomica come il Giappone e cercare di ristabilire i confini della cucina italiana non è stato facile – argomenta -. A Tokyo molti grandi ristoratori italiani sono dovuti tornare sui propri passi perché, probabilmente, non conoscendo bene il territorio hanno riprodotto la loro cucina trovando difficoltà a farsi capire dai nipponici».

Come hai fatto a superare questo gap?

«Nei primi due anni a Tokyo ho avuto l’ossessione di utilizzare prodotti di altissima qualità – vini, oli, formaggi, verdure e carni – che facevo arrivare dall’Italia. Continuavo però a farmi domande perché nella mia cucina non trovavo una vera soddisfazione che, invece, provavo quando andavo a mangiare nei ristoranti tradizionali giapponesi. A quel punto mi sono fatto un esame di coscienza e, non riuscendo a capire qual era la direzione da prendere, ho parlato con Seiji Yamamoto, un amico chef con tre stelle Michelin a Tokyo che ha un culto per ingredienti e stagionalità ed è  in procinto di aprire una sua insegna a Hong Kong. Gli ho chiesto come avrebbe fatto a riprodurre la sua cucina senza i suoi ingredienti e lui, con gran naturalezza, mi ha detto che aveva fatto una ricerca sul territorio fino a trovare materia prima che, in alcuni casi, era superiore a quella da lui utilizzata a Tokyo. Questa chiacchierata ha cambiato il mio approccio alla questione».

Quindi adesso utilizzi prodotti giapponesi?

«Non esclusivamente, ma la maggior parte sono ingredienti locali. A essere fondamentale è stata la ricerca che ho fatto in prima persona. Ho abbandonando gli intermediari, ho cominciato a studiare le specialità delle varie regioni, ho preso accordi con le amministrazioni che sono sempre molto collaborative e nel giorno di chiusura del ristorante ho cominciato a visitare uno per uno i piccoli produttori e gli artigiani che fanno materie prime di qualità. Dopo due anni di ricerca avevo tantissimo materiale tanto da scriverci un libro».

Come definiresti la tua cucina attuale?

«Una cucina italiana contemporanea fatta con ingredienti stagionali giapponesi che esistono nella cucina italiana (non utilizzo tofu o yuzu, per intenderci) lavorati con un mix di tecnica italiana e giapponese. La mia cucina, però, mantiene il gusto italiano che è l’unico metro per riconoscere la nostra cucina».

Ci spieghi meglio?

«In Italia le ricette e le tradizioni cambiano da regione in regione, anzi di campanile in campanile. Il gusto, però, è ben identificabile. Se invece di utilizzare un pomodoro dell’Etna o del Vesuvio, la cui caratteristica è la mineralità, ne utilizzo uno giapponese dal sapore simile e lo condisco con olio d’oliva e basilico giapponese, mangiandolo ad occhi chiusi sono in Italia. Se lo stesso pomodoro lo condisco con salsa di soya e shiso, che è un’erba giapponese simile al basilico, sono in Giappone».

Quindi sei d’accordo sul fatto che bisogna codificare il gusto italiano e non la cucina italiana.

«Assolutamente, in particolare nel fine dining il cui intento è proporre un’esperienza gastronomica, non piatti tradizionali come lasagna, parmigiana, gnocchi, tortelli di zucca o zuppa di cipolla. Però il problema esiste: quando arrivai in Giappone mi chiesero che cucina italiana facessi, se del Nord o del Sud; in quel caso io risposi fermamente che la mia non era una cucina regionale. Naturalmente tutto cambia quando si parla di piatti casalinghi, in quel caso per me non serve altro che uno spaghetto al pomodoro e una bruschetta».

Come si concilia tutto questo con i prodotti identificativi dell’enogastronomia italiana come le Dop o alcuni formaggi, il riso e la pasta?

«Quello è un discorso diverso e riguarda l’eccellenza non replicabile di cui fanno parte paste secche, formaggi o riso che, per un risotto di ottima qualità, deve essere italiano. Io, per esempio, ho provato una cinquantina di risi giapponesi, ma nessuno mi ha dato la resa di un Carnaroli. E per la mantecatura non posso prescindere dal formaggio italiano».

Mariella Caruso