Il sistema dell’alta ristorazione italiana deve restare in una dimensione locale, accontentarsi di curare la propria clientela seguendo la vulgata “piccolo è bello”, oppure lanciarsi sul mercato espandendo le proprie aziende per competere con i grandi della gastronomia internazionale?
La domanda, diventata una provocazione lanciata in occasione del primo Congresso nazionale degli Ambasciatori del Gusto da Severino Salvemini, economista e professore ordinario di organizzazione aziendale all’Università Bocconi di Milano.
Ne abbiamo parlato con l’Ambasciatore del Gusto Andrea Berton che, al suo ristorante milanese premiato con una stella che mantiene dal novembre 2014, ha affiancato il Berton al Lago aperto nel luxury hotel Il Sereno di Torno anch’esso appena premiato con una stella. Inoltre gestisce a Milano, con alcuni soci, due locali Dry Cocktail & pizza e il bistrot contemporaneo Pisacco.

Berton, è meglio essere solo chef o chef imprenditori?

«Questo dipende dagli obiettivi. L’importante è lavorare mantenendo ben salda la barra rispetto a quanto ci si è prefisso. Per chi vuole espandere la propria azienda l’importante è ampliare sempre la conoscenza. Allo stesso tempo per chi vuole internazionalizzare la propria azienda occorre lavorare in condivisione, confrontarsi di più prendendo spunto dai nostri colleghi francesi e spagnoli che conoscono bene la gastronomia e questo tipo di processi».

Cosa blocca la crescita dell’alta ristorazione italiana?

«L’adattamento alla tradizione della cucina italiana. Servirebbe, al contrario più libertà, lasciarsi andare un po’ di più facendoci conoscere. È fondamentale anche il coinvolgimento delle istituzioni affinché supportino davvero lo sviluppo internazionale della ristorazione con grandi eventi e manifestazioni che vadano oltre la “Settimana della cucina italiana nel mondo” con l’obiettivo di fare acquisire alla nostra cucina il valore della cucina francese».

Cosa intende quando parla di sistema Italia che non supporta il settore enogastronomico?

«Al funerale di Gualtiero Marchesi non c’era alcun rappresentante istituzionale, a quello di Paul Bocuse in Francia c’era il ministro dell’Interno e tutta la Francia lo ha onorato».

Secondo lei si tratta di una distorta percezione del settore?

«Può essere un difetto di percezione, anche se negli ultimi anni sono tanti gli sforzi fatti anche attraverso associazioni. La verità è che l’individualismo italiano limita molto le nostre possibilità. Ultimamente abbiamo cominciato a parlare di unità e di remare tutti nella stessa direzione anche attraverso associazioni come gli Ambasciatori del Gusto: la speranza è che tutte queste parole non restino tali e possano trovare un’applicazione pratica, che purtroppo è molto difficile a causa di un sistema del quale anch’io sono parte integrante. Tutti dovremmo impegnarci un po’ di più per uscire da questo meccanismo un po’ ingarbugliato che ha il suo primo nodo nel costo del lavoro».

Lei, però, è riuscito ugualmente a espandere la sua attività…

«Ho aperto qualche ristorante con molta difficoltà e fatica. Se avessi deciso di espandermi negli Stati Uniti, a Londra o a Singapore avrei faticato la metà e guadagnato dieci volte di più per via delle agevolazioni riservate in quei Paesi a chi fa investimenti. In Italia la nostra categoria parla tanto, ma non arriverà mai a niente fin quando non riuscirà a interagire come seria controparte delle istituzioni. Faccio un esempio: noi ristoratori dovremmo avere un contratto ad hoc diverso da quello del commercio. E le istituzioni dovrebbero tenere presente che c’è una percentuale di turisti che arriva in Italia per vivere un’esperienza enogastronomia».

Le iniziative individuali possono aiutare?

«Non so fino a che punto. Negli ultimi 4 anni la mia attività è diventata un piccolo sistema con 110 dipendenti. Ci sono altri colleghi che ne hanno altrettanti. Il nostro lavoro fa aumentare la qualità e supporta anche il turismo, ma nessuno sembra accorgersene. La verità è che noi ristoratori italiani siamo masoschisti e invece di andare in Paesi dove ci stenderebbero i tappeti rossi, restiamo qui. Confesso di aver pensato anch’io ad andar via, ma amo il mio Paese e resto qui».

Nemmeno Expo 2015 ha cambiato le carte in tavola?

«Milano è sicuramente migliorata a livello di accoglienza turistica e di ricerca della qualità nella ristoriazione che, oggi, riguarda almeno l’80% delle nuove aperture di settore. Ma a livello gestionale non è cambiato niente, per me lavorare a Milano o al Lago è la stessa cosa eccezion fatta per la percezione del luogo da parte di chi lo vive come cliente».

Secondo lei cosa dovrebbero mettere in campo le istituzioni?

«Io non sono un politico, però il Noma di Redzepi quando aprì aveva il supporto del Ministero del Turismo locale per il ruolo di ambasciatore della gastronomia danese nel mondo. Una gatronomia che, fino a quel momento, era inesistente. Realisticamente non dico che bisogna fare cose del genere, ma se il sistema avesse una guida illuminata, chessò un Massimo Bottura al timone di un Ministero delle Politiche Gastronomiche, le cose potrebbero imboccare un’altra strada».

Una strada  potrebbe essere anche l’educazione dei clienti?

«I clienti sono molto più preparati di quanto si pensi. Sono tanti a capire che noi ristoratori siamo imprenditori, non mangiano più soltanto pasta e pizza, piatti di per sé importanti. Però bisogna avere fiducia nel futuro».

Mariella Caruso