Lotta allo spreco, come si vince

14 settembre 2016, in Italia entra in vigore della Legge 166 conosciuta come Legge Gadda dal nome della sua relatrice Maria Chiara Gadda. Con un costrutto di 18 articoli suddivisi in tre capi ha disciplinato «la donazione e la distribuzione di prodotti alimentari e farmaceutici a fini di solidarietà sociale e per la limitazione degli sprechi». Per dirla con maggiore semplicità dall’adozione della Legge Gadda è diventato più semplice donare prodotti alimentari e farmaceutici in eccedenza e, così facendo, combattere gli sprechi facendo rivivere gli scarti, incentivando il recupero di alimenti per il consumo umano e, qualora non fosse possibile, quello per uso zootecnico o energetico.

Secondo un articolo a firma Giuseppe Latour pubblicato lo scorso 8 settembre da Il Sole 24 ore, attraverso la Legge Gadda nel solo 2018 sono stati recuperati «oltre 1,1 milioni di farmaci, circa 700mila pasti da mense e cucine ospedaliere e più di 7.600 tonnellate di eccedenze alimentari dalla Gdo». Numeri importanti che sono frutto di una molteplicità di iniziative che, grazie alle possibilità concesse dalla normativa, hanno innescato processi virtuosi che, in tema alimentare, hanno interessato sia il mondo della grande distribuzione, sia quello della ristorazione.

Tra i progetti virtuosi che hanno ricevuto una spinta dal mondo della ristorazione spicca, sia perché è stato uno dei primi sia perché a farlo decollare è stato Massimo Bottura, il Refettorio Ambrosiano. Al via nel 2015 per evitare lo spreco e favorire il riutilizzo delle eccedenze alimentari di Expo Milano 2015, il Refettorio è stato allestito nell’ex teatro annesso alla parrocchia San Martino nel quartiere Greco di Milano e continua a servire dal lunedì al venerdì pasti di tre portate preparati con eccedenze alimentari raccolte dai mercati e supermercati della città a persone in situazioni di vulnerabilità sociale.

Il progetto del Refettorio Ambrosiano, che continua sotto l’egida dell’associazione no profit Food for Soul presieduta da Lara Gilmore, non avrebbe potuto continuare senza l’entrata in vigore delle norme che disciplinano il recupero dei prodotti alimentare che, prima, dovevano essere distrutti. Della stessa normativa si fa forte il Banco Alimentare che nel solo 2018 ha recuperato 90.411 tonnellate di alimenti tra cui 18.082 dalle industrie alimentari, 12.381 dalla Gdo e, come fanalino di coda, 517 dalla ristorazione.

A venire in aiuto a quei ristoratori che vogliono partecipare alle campagne antispreco ci sono strumenti digitali come le app a partire da Bring The Food che è stata sviluppata con la collaborazione del Banco Alimentare alla quale ci si può iscrivere come donatori di alimenti. Un’altra app da poco arrivata in Italia è la danese Too Good To Go che permette a bar, ristoranti, forni, pasticcerie, supermercati ed hotel di vendere online – a un prezzo tra i 2 e i 6 euro – le Magic Box, delle bag con una selezione a sorpresa di prodotti invenduti “troppo buoni per essere buttati”, che tuttavia non possono essere rimessi in vendita il giorno successivo. Anche Regusto, che prende il nome dal latino “gustare di nuovo”, è una app che permette ai ristoratori di mettere in vendita i piatti invenduti a prezzo scontato, permettendo ai clienti di prenotarle tramite telefono e poi passare a ritirarle presso il locale scelto.

Nonostante il lavoro fatto negli ultimi tre anni, però, la strada da percorrere è ancora tanta perché, come attestano i dati presentati a febbraio alla Fao dall’Università di Bologna – Dipartimento Scienze e Tecnologie Agroalimentari con il Ministero dell’Ambiente e la campagna Spreco Zero dello spin off Last Minute Market, lo spreco di cibo in Italia vale ancora oltre 15 miliardi. E tutti possiamo contribuire a far sì che questa cifra si abbassi ogni giorno di più.

Mariella Caruso

Photo credits: Too Good To Go


Gli Ambasciatori del Gusto riuniscono Istituzioni, Enti e Università in nome del Turismo Esperienziale

Non basta più mettersi la coscienza a posto ripetendo che l’Italia è il Paese in cui si mangia meglio al mondo. Serve nuova linfa per il turismo esperienziale legato all’enogastronomia puntando su maggiore qualità e meno folklore per non segnare maggiormente il passo rispetto a tutti quei Paesi che investono molto sullo sviluppo dell’enogastronomia locale. Da questi semplici concetti dei quali si sono fatti portavoce Cristina Bowerman e Paolo Marchi, rispettivamente presidente e vicepresidente degli Ambasciatori del Gusto, ha preso il via lunedì 30 settembre al Complesso Monumentale Donnaregina di Napoli il convegno annuale dell’Associazione dedicato al turismo esperienziale aperto dal saluto del sindaco della città partenopea, Luigi De Magistris.

IL TURISMO ENOGASTRONOMICO IN CIFRE. Sono numeri importanti quelli di questo tipo di turismo. Sentirli enunciare uno dopo l’altro dall’autrice del Rapporto sul Turismo Enogastronomico Italiano 2019, Roberta Garibaldi, fanno anche un po’ impressione. Nel 2018 il 98% dei viaggiatori italiani hanno fruito di una o più esperienze enogastronomiche; nel 2017 rispetto al 2016 la crescita in termini di spesa è cresciuta del 61% e del 57% in termini di prenotazioni con quest’ultimo trend che ha continuato a crescere facendo registrare un ulteriore +53% nel 2018. «Le esperienze più amate sono mangiare piatti tipici del luogo (88%), visitare mercati (82%), visitare ristoranti e bar storici (72%)», ha sottolineato Garibaldi evidenziando il gap tra domanda e offerta per alcuni tipi di esperienze come le visite ai luoghi di produzione diversi dalle cantine, tra questi caseifici, frantoi, birrifici, salumifici, pastifici. Il desiderio di visita a una fabbrica di cioccolato è il paradigma utilizzato per capire quanto sia profondo questo gap. Evidenzia Garibaldi: «Il 77% dei viaggiatori enogastronomici avrebbe fatto volentieri una visita a una fabbrica di cioccolato, ma solo il 23% ha potuto soddisfare questo desiderio. A ostacolare lo sviluppo di queste esperienze è la mancanza di una legislatura e delle informazioni di massima per poterne usufruire». Prodotto, servizio, storytelling sono i tre elementi necessari per la costruzione di un’esperienza di valore. «Temi sui quali molti Paesi stanno lavorando con piani strategici nazionali», afferma ancora Garibaldi. Altro punto strategico è la tipicità che dovrebbe cominciare già con la prima colazione alla quale, dice l’esperta di turismo enogastronomico, «si presta poca importanza nonostante molti viaggiatori siano interessati alla colazione coi prodotti del territorio».

IL TURISMO ENOGASTRONOMICO VISTO DALL’ENIT. La spesa media procapite del turista enogastronomico in Italia è di 117 euro contro i 91 del turista balneare. Basterebbe questo dato – che pone questo tipo di turismo al terzo posto dietro quello culturale e sportivo – illustrato nell’intervento al convegno della responsabile Centro Studi Enit Elena Di Raco a far comprenderne il valore economico dell’esperienza per il turista. «Non basta far passare i turisti nelle aziende, ma è necessario arricchire il loro vissuto e far portar loro a casa un ricorso emozionale», spiega Di Raco mettendo a fuoco altri dati importanti sui quali focalizzare lo sguardo: la sostenibilità dalla quale non si può prescindere se si vuole fare turismo esperienziale; le grandi destinazioni come hub di un territorio più vasto (l’esempio è quello di Napoli per la Campania); la dilatazione del turismo enogastronomico che non ci concentra soltanto nei mesi di luglio e agosto, ma anche nei mesi spalla precedenti e successivi il picco di presenze; la presenza in Italia di 55 siti Unesco per i quali possono essere studiati percorsi legati ai prodotti enogastronomici; il coinvolgimento della generazione Z o post-Millenial che dir si voglia. E c’è da ricordare che il turismo enogastronomico sta ancora crescendo. «I mercati importanti per questo tipo di turismo sono quello britannico, sul quale quello che è accaduto in questi giorni (il fallimento Thomas Cook, ndr) stiamo rafforzando la promozione, e poi quello tedesco, francese e statunitense.

Va detto, però, come sottolinea senza giri di parole il presidente del Consorzio Grana Padano Nicola Cesare Baldrighi, «per accogliere nelle aziende produttive i turisti interessati è necessario superare le difficoltà tecniche e i vincoli considerevoli imposti dalle normative imposte dagli adempimenti per garantire la qualità e la sicurezza delle produzioni, a partire dalle nostre».

L’ESPERIENZA, QUESTA SCONOSCIUTA. Cos’è l’esperienza nella definizione comune? A elaborare una definizione/formula che «tiene conto del coinvolgimento dei 5 sensi» è stato Giorgio Scarselli, Ambasciatore del gusto e proprietario del Ristorante Il Bikini di Vico Equense. Questa formula è E=T/S(x). «L’esperienza è tanto maggiore quanto è maggiore il tempo trascorso con il coinvolgimento dei 5 sensi. E – fa notare Scarselli – il maggiore tempo e il coinvolgimento di tutti i sensi avviene specificatamente nella ristorazione». «A oggi l’offerta italiana di turismo esperienziale è tutta gestita da siti internazionali: Withlocal, Airbnb e Viator offrono pacchetti turistici di questo tipo», continua l’Ambasciatore del Gusto convinto che uno dei valori più premianti sia «l’autenticità». Non mancano esempi di turismo esperienziale tutti campani: da Enzo Coccia, «il primo a portare la pizza all’estero quando non c’era ancora tutta questa attenzione sul prodotto creando una ricaduta sul territorio», a Franco Pepe con la sua «Autentica, una sala otto posti con forno e il pizzaiolo che lavora davanti ai commensali» passando per Alfonso Iaccarino, «che dà ai propri ospiti la percezione di riceverli a casa, tanto che chi ritorna si presenta con un regalo», Peppe Guida «la cui colazione è sinonimo di famiglia e prodotto» per finire alla «slow luxury experience di Nerano, piccolo villaggio di pescatori dove opera la famiglia Caputo.

LE TESTIMONIANZE. Sono Mariella Caputo, Ambasciatrice del gusto e sommelier de La Taverna del Capitano, Giuseppe Di Martino, ad del Pastificio Di Martino, e Leopoldo Saccon, architetto, membro del comitato scientifico del Sito Patrimonio Unesco “Le Colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene” a portare le loro testimonianze nel panel finale del convegno moderato da Maria Teresa Manuelli. «Abbiamo scelto il silenzio mediatico facendo vivere ai nostri ospiti un’esperienza autentica accogliendoli a Nerano con semplicità», dice l’Ambasciatrice facendo notare che gli spaghetti alla Nerano sono più conosciuti a Hollywood, «Tom Hanks li ha citati a una premiazione come il suo piatto della vita», che in Italia. È turismo esperienziale anche quello che sta facendo conoscere «la pasta di Gragnano, prodotto che si fa da 500 ma che – dice Di Martino – è diventata Igp soltanto nel 2012. A Gragnano stiamo andando oltre gli slogan e lo storytelling per entrare nella storia dei luoghi diventando mediatori di cultura e conoscenza con la ristrutturazione della Valle dei Mulini che, sfruttando le acque del torrente Vernotico, hanno prodotto per secoli la farina».

LE CONCLUSIONI ECONOMICHE. «Quando parliamo di territorio parliamo di decisioni pubbliche. Quasi tutte le esperienze raccontate sono frutto di meritorie attività di operatori private in una logica bottom-up con la cooperazione che supera la competitività. Le sfide, però, si vincono top down», attacca Severino Salvemini, economista e professore dell’Università Bocconi. «Questo avviene quando Comuni, distretti, enti locali decidono di allocare in questo tipo di attività denari creando ricadute sul territorio di tipo economico, sociale e cognitivo. Dal momento che occorre fare scelte allocative di risorse scarse, è necessarie che le iniziative finanziate siano adatte alle specificità di ogni territorio, che la committenza consideri i molteplici obiettivi degli stakeholders e che il “mercato” sia calibrato da orientamenti pubblici perché gli operatori farebbero troppo fatica ad agire da soli». Affinché tutto questo funzioni non si può prescindere dall’«analisi d’impatto che – spiega Salvemini – viene fatta immaginando le esternalità positive (che, a volte, possono essere anche negative: Matera, città della cultura, per esempio, ha problemi infrastrutturali con le ferrovie) generate dall’investimento». A essere valutato è l’impatto occupazionale, l’indotto che si misura negli «effetti secondari moltiplicatori della spesa diretta. Se vi dicono che un evento ha un effetto moltiplicatore di 6/7 diffidate perché è impossibile, ma un moltiplicatore da 2 a 4 è un segnale importante che, insieme alle ricadute sociali, deve essere tenuto in conto per gli investimenti pubblici». Anche del turismo esperienziale.

Mariella Caruso

Photo credits: Giulia Manelli


Il turismo esperienziale, chiave di successo per l'evoluzione dell'enogastronomia

Esperienziale, ovvero relativo all’esperienza, qualcosa che è oggetto prima di percezione e quindi di riflessione. Anche il turismo sta diventando sempre più esperienziale. Non basta più scattare foto e fare selfie accanto ai monumenti simbolo. Chi viaggia lo fa sempre più per vivere esperienze, entrare in contatto con la gente del luogo e immergersi nella loro cultura. Nell’ambito del turismo esperienziale italiano i percorsi enogastronomici sono tra i più richiesti perché niente come il cibo avvicina alle altre culture. Accompagnare un viaggiatore in un percorso enogastronomico, però, non è semplice come sembra.

AL TURISMO ESPERIENZIALE SERVONO FIGURE QUALIFICATE. «Il turismo esperienziale riguarda una fascia di popolazione culturalmente interessata e che, per questo, ha bisogno di trovare una contropartita all’altezza. Questo è già riscontrabile oggi e le proiezioni future vanno nella stessa direzione», osserva Elisabetta Moro, professore ordinario di Antropologia culturale dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e Ambasciatore del gusto benemerito. «Per costruire percorsi adeguati di turismo esperienziale ci vogliono figure qualificate – continua -. Della formazione di queste nuove professionalità l’Università si deve fare carico anche sotto il profilo della promozione nei confronti di quei giovani che sono interessati ma che fino a questo momento hanno avuto un approccio amatoriale senza comprendere, invece, che quello del turismo esperienziale è un terreno vergine che nel prossimo futuro avrà grandi sbocchi occupazionali». «Per intercettare questo tipo di turismo – continua – non si può andare alla cieca, occorre conoscere l’antropologia culturale e allenarsi, culturalmente parlando, alla diversità. Organizzare questo tipo di tour per un giapponese sarà diverso che fare la stessa cosa per un portoricano perché il loro background e le loro sensibilità sono differenti. Noi italiani, inutile negarlo, in questo tipo di formazione siamo un po’ in ritardo».

LE ESPERIENZE ENOGASTRONOMICHE. «Per poter parlare a un turista della nostra enogastronomia dobbiamo conoscere quella del Paese da cui arriva», entra nel dettaglio la professoressa Moro che, tra le altre materie, insegna Turismo enogastronomico. «Ai miei studenti dico sempre che l’orgoglio per i nostri prodotti alimentari è giusto, ma tradurre quest’orgoglio in valore comunicabile non è semplice. Non basta che io dica che la pasta di Gragnano è un’eccellenza, devo anche riuscire a spiegare perché. Così come devo saper raccontare che l’esistenza in Italia di così tanti formati di pasta è una questione culturale. In definitiva il gioco del turismo esperienziale in ambito enogastronomico è quello di creare sinestesie che facciano sì che i piatti non stanchino mai», sottolinea Moro. Qualcosa, però, comincia a muoversi ricordando il Master post laurea di Comunicazione multimediale dell’enogastronomia del Suor Orsola Benincasa, il nuovo Master di I livello in Scienze e culture gastronomiche per l’educazione alimentare e la promozione della dieta mediterranea al via a gennaio 2020 nello stesso Ateneo nonché il corso di Scienze gastronomiche mediterranee nella facoltà di Agraria dell’Università Federico II e di Hospitality manager nella facoltà di Economia dello stesso ateneo. «Sono segnali importanti in un Paese nel quale finora la cultura alimentare è stata considerata di serie B», ribadisce. Di pari passo anche ristoratori e produttori dovrebbero fare dei passi avanti: «Il know-how familiare di chi è nato in cucina non basta più. C’è bisogno di formazione, anche tematica e veloce con workshop su temi specifici come per esempio sull’organizzazione dei tour tra i produttori che, sovente, sono molto “artigianali”. Perché – conclude – la buona volontà da sola non basta per far decollare il turismo esperienziale enogastronomico».

SAPORE, EMOZIONE E STORYTELLING. Chi da tre decenni si occupa di far conoscere nel mondo il Made in Italy agroalimentare è Silvana Ballotta, titolare di Business Strategies il cui core business è l’internazionalizzazione delle pmi. «L’esperienza è ciò che consente al consumatore che si trova dall’altra parte del pianeta di toccare con mano un prodotto del quale può, in seguito, perfezionare la conoscenza con un viaggio in Italia», attacca la professionista. «Attraverso la breve esperienza dell’assaggio noi portiamo le persone dentro l’italianità, ovvero dentro un mondo di fascino, cultura, storia, territorio che ogni prodotto enogastronomico ha nel Dna e che deve riuscire a raccontare – aggiunge -. Un pezzo di formaggio o un bicchiere di vino non valgono solo per quello che portano in termini di qualità e tracciatura della filiera, ma anche per il loro contributo al desiderio di visitare l’Italia e scoprire i territori nei quali vengono prodotti». Il racconto deve essere costruito secondo le migliori regole dello storytelling, «parola della quale – avverte Ballotta – si sta facendo un abuso. Lo storytelling non è una semplice descrizione, ma una tecnica di racconto che deve trasferire emozioni tra chi parla e chi ascolta, un racconto che lavora a livello profondo e che, insieme ai sapori dei nostri prodotti, deve catturare l’interlocutore lasciandolo libero di immaginare». Con questi strumenti è possibile conquistare molti mercati. «L’enogastronomia e la ristorazione italiana hanno molti margini di crescita – conclude -. Basti pensare al successo dei ristoranti italiani nel mondo e al fatto che nella maggior parte dei casi rappresentino davvero poco l’italianità».

Mariella Caruso

Elisabetta Moro photo credits: Rossella Galletti
Silvana Ballotta photo credits: Business Strategies


Ambasciatori del Gusto - Programma Convegno 30 Settembre 2019

Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto

Convegno 30.09.2019  - “Il turismo esperienziale”

 

La prima parte del convegno servirà a descrivere cosa si intende per turismo esperienziale e si focalizzerà sul turismo enogastronomico.
Nella seconda parte saranno dibattute alcune proposte per un turismo esperienziale integrato, proponendo un modello sostenibile e prendendo in considerazione alcuni casi. Si ambisce a individuare un “teorema” che spieghi come poter essere interlocutori delle Istituzioni nei tavoli di costruzione di modelli per le offerte turistiche su tutto il territorio nazionale.

OBIETTIVO: individuare e comunicare la “formula magica” per progetti di turismo esperienziale vincenti.  Cultura + istituzioni + imprenditori + creatività + Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto come valore aggiunto: potrebbe essere questa la formula? Esiste una formula del modello perfetto di turismo esperienziale?

PROGRAMMA COMPLETO

Ore 09:30 Caffè di benvenuto
Ore 10:00 Saluti istituzionali
Luigi de Magistris, Sindaco di Napoli; Cristina Bowerman, Presidente Associazione Italiana  Ambasciatori del Gusto; Paolo Marchi, Vicepresidente Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto.
Ore 10:30 Cos’è il turismo esperienziale, cosa può generare, quanto costa? Focus sul turismo enogastronomico.

    • Roberta Garibaldi, Autrice del Rapporto sul Turismo Enogastronomico Italiano 2019
    • Elena Di Raco, Responsabile Ufficio Studi ENIT
    • Nicola Cesare Baldrighi, Presidente Consorzio Tutela Grana Padano
    • Giorgio Scarselli, Ristorante Il Bikini, Vico Equense

    Ore 11:30 Pausa
    Ore 11:45 Casi virtuosi di turismo esperienziale, esiste un teorema?

    • Maria Teresa Manuelli – Giornalista de Il Sole 24 Ore
    • Giuseppe Di Martino, A.D. Pastificio di Martino, Antica Pasta di Gragnano
    • Leopoldo Saccon, architetto, membro del comitato scientifico del Sito Patrimonio Unesco “Le
      Colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene”
    • Severino Salvemini, Professore presso l’Università Bocconi di Milano
    • Mariella Caputo, Ristorante Taverna del Capitano, Nerano, Massa Lubrense

    Ore 12.45 fine lavori e saluti

     

     

     


I ristoratori sono partner strategici per i prodotti Dop e Igp

«La Mozzarella di Bufala Campana Dop ha delle peculiarità molto apprezzate nell’ambito della ristorazione. Si tratta, infatti, di uno dei pochi formaggi che, abbinato a pochi ingredienti come pomodoro e olio extravergine d’oliva, può costituire un pasto», osserva Pier Maria Saccani, direttore del Consorzio di Tutela della Dop. «A questo si aggiunga – continua – l’uso variegato che se ne può fare nella ristorazione partendo dalla pizza per arrivare fino alla cucina stellata». Basti citare la Caprese… dolce salato di Andrea Aprea, la Palla di mozzarella con tagliolini e pesto di Rosanna Marziale o la Margherita sbagliata di Franco Pepe, piatti dal riconoscimento internazionale, che da un lato contribuiscono a contraddistinguere l’identità dello chef, dall’altro ad alimentare la conoscenza del prodotto a livello nazionale e internazionale. Una notorietà che serve da volante alla promozione del prodotto da parte del Consorzio di Tutela della Dop e, di conseguenza, all’innalzamento della qualità. Spiega Saccani: «Negli ultimi anni abbiamo assistito alla crescita la crescita dei volumi di produzione che è andata di pari passo con l’innalzamento della qualità a seguito di investimenti fatti dai singoli caseifici (sono 100 quelli certificati, ndr). La maggiore qualità, insieme alle attività del Consorzio legate a prodotto e territorio, è stata un’ulteriore leva per i ristoratori all’utilizzo del prodotto».
Qual è l’impatto dei prodotti Dop e Igp nel mondo della ristorazione? Quanto il loro utilizzo nelle cucine della ristorazione gourmet aiuta la distribuzione e la conoscenza di queste eccellenze agroalimentari? Come l’attività promozionale degli chef ambasciatori di prodotto impatta sulla conoscenza a livello nazionale e internazionale? Per cercare di comprendere questi meccanismi abbiamo preso in considerazione la Mozzarella di Bufala Campana Dop, un prodotto agroalimentare che vale di più in Italia in termini di fatturato (400 milioni di euro alla produzione e 745 al consumo nel 2018) ed esportazioni pari al 32,7% di quanto prodotto dalle 1338 aziende agricole aderenti al Consorzio. Nel canale Ho.re.ca, sempre nel 2018, vanta il 22% del fatturato con un incremento del 20% rispetto al 2017.

LA COMUNICAZIONE.  La partecipazione a fiere ed eventi fa parte della comunicazione istituzionale del Consorzio di Tutela della Mozzarella Campana Dop. «Non manchiamo mai al Sial a Parigi e all’Anuga a Colonia, le due principali fieri europee dedicata al mondo del food», sottolinea Lorenzo Iuliano, addetto stampa del Consorzio. Non manca, però, l’attività promozionale attraverso i protagonisti della ristorazione alcuni dei quali, come gli Ambasciatori del Gusto Rossana Marziale e Franco Pepe, sono ufficialmente ambasciatori della Mozzarella di Bufala Campana Dop nel mondo. «Con i nostri ambasciatori organizziamo masterclass o eventi, che sono spesso dei Fuorisalone, con giornalisti e blogger in collaborazione con altri Consorzi – dettaglia -. Non ci rivolgiamo ai canali classici di comunicazione come la pubblicità tradizionale su carta stampata e/o televisione, preferiamo curare rapporti con giornalisti di settore e food blogger che oggi incidono sul mondo dei foodies. E il riscontro in termini di articoli, passaggi di servizi televisivi e visibilità social è soddisfacente». Di altra natura, invece, la collaborazione con l’ICE con il quale il Consorzio di Tutela della Mozzarella di Bufala Campana Dop collabora nell’organizzazione di seminari volti, soprattutto, «all’informazione sul modello campano, sul trasporto e sulla distribuzione del prodotto».

LA PAROLA AGLI CHEF. È «l’attaccamento imprescindibile alla Mozzarella di Bufala Campana Dop e a tutto quello che ruota intorno al mondo bufalino» che ha portato Rosanna Marziale a essere Ambasciatrice del prodotto nel mondo. «Ero già portavoce della Mozzarella di Bufala Campana Dop ancora prima che il ruolo venisse conclamato del Consorzio perché da sempre mi dedico alla trasformazione di questo prodotto principe del mio territorio. Diciamo che il mio è stato un percorso naturale, ma non scontato», dice la chef del ristorante Le Colonne di Caserta. «Sono tante le domande che ricevo quando parlo di questo prodotto oltre i nostri confini. Ce ne sono di tecniche sui metodi di trasformazione che non è semplice e quelle sul territorio», racconta l’inventrice del latte di mozzarella, «nato come prodotto antispreco dalla rimozzatura del prodotto e ora entrato anche nelle ricette di altri colleghi». È ambasciatore della Mozzarella di Bufala Campana Dop anche il Maestro pizzaiolo Franco Pepe. «Il nostro lavoro di ampliamento della conoscenza è fondamentale. Fino a 5 anni fa non era facile utilizzare la mozzarella di bufala in pizzeria, soprattutto all’estero, e lo denunciai a LSDM. Per farlo bisogna avere una grande conoscenza della materia prima e dei fornitori e dei distributori che sanno trattare il prodotto. Per evitare l’effetto bagnato sulla pizza, infatti, è necessaria una mozzarella di bufala campana Dop più asciutta e quindi con un minor tenore di grassi e sale cui alcuni produttori stanno lavorando», sottolinea Pepe convinto che questo tipo di comunicazione, non ruffiano ma concreto, sia fondamentale per la promozione di un prodotto dalla shelf life molto breve che sconta, quindi, problemi legati al suo trasporto trattati, come già scritto, attraverso i semi organizzati in collaborazione con l’Ice.

ITALIAN SOUNDING. Quella dell’italian sounding è una questione molto seria dell’agroalimentare italiano a marchio Dop e Igp. «Onestamente, non abbiamo trovato molti richiami alla Campania che possano indurre in inganno quando si parla di Mozzarella di Bufala Campana Dop. Anche se la buffalo mozzarella esiste per noi non è un problema», ammette Saccani. Nonostante tutto l’attività di tutela è fondamentale. «Come Consorzio abbiamo sottoscritto in agosto un accordo con l’US Diary, l’associazione dei produttori lattiero caseari americani affinché ci siano maggiori tutele e trasparenza anche per i consumatori d’Oltreoceano. Poi investiamo molto economicamente per la vigilanza del mercato».

Mariella Caruso

Photo Credit: Consorzio di Tutela Mozzarella di Bufala Campana Dop


La cena annuale degli Ambasciatori del Gusto per la prima volta a Napoli

Per partecipare alla cena annuale degli Ambasciatori del Gusto, acquista il biglietto dell'evento.

L’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto sceglie Napoli per la cena dell’anno 2019. Dopo il successo delle prime due edizioni, tenutesi a Roma e Milano, sarà il capoluogo campano a ospitare la grande serata in programma domenica 29 settembre, alle ore 19.30, nella maestosa cornice di Palazzo Caracciolo.

Per l’occasione gli Ambasciatori del Gusto – uniti negli intenti di una realtà senza scopo di lucro che rappresenta l’eccellenza della ristorazione e della pasticceria italiana, con l’intento di valorizzarne l’intero patrimonio agroalimentare nel mondo – mettono in campo uno schieramento d’eccezione formato da 10 grandi cuochi campani e 10 grandi cuochi provenienti dal resto d’Italia.

Dieci coppie assolutamente inedite formano una squadra di 20 tra i migliori rappresentanti della cucina italiana di qualità e 40 mani d’autore all’opera insieme.

A rappresentare la cucina del territorio “giocando in casa” ci saranno: Salvatore Avallone (Cetaria Ristorante, Baronissi), Alfonso Caputo (Taverna del Capitano, Massa Lubrense), Enzo Coccia (La Notizia, Napoli), Mimmo De Gregorio (Lo Stuzzichino, Sant’Agata dei Due Golfi), Paolo Gramaglia (President Restaurant Pompei), Peppe Guida (Antica Osteria Nonna Rosa, Vico Equense), Francesco Pucci (La Riggiola, Napoli), Giorgio Scarselli con Fumiko Sakai (Il Bikini, Vico Equense), Pasquale e Gaetano Torrente (Al Convento, Cetara) e Antonio Tubelli (Baroq Art Bistrot, Napoli).

Ad affiancare ciascuno di loro, in quello che sarà uno straordinario gioco delle coppie ai fornelli, all’insegna del gusto e della cucina tricolore di qualità, arriveranno: Caterina Ceraudo (Dattilo, Marina di Strongoli, Crotone), Enrico Cerea (Da Vittorio, Bergamo), Gioacchino Sensale (Hotel Dolcestate, Campofelice di Roccella, Palermo), Giorgio Servetto (Nove Ristorante, Alassio), Raffaele Ros (Ristorante San Martino, Scorzè, Venezia), Arcangelo Dandini (L’Arcangelo, Roma), Giuseppe Romano (Me Restaurant, Pizzo, Vibo Valentia), Franco Aliberti (Tre Cristi Milano, Milano), Gianfranco Pascucci (Pascucci al Porticciolo, Fiumicino, Roma) e Solaika Marrocco (Primo Restaurant, Lecce). 

Questi maestri della cucina avranno il compito di comporre un menù corale sulle note dei sapori campani e delle contaminazioni liguri, laziali, siciliane, calabresi, lombarde e venete, proponendo piatti della tradizione locale rivisitati in modo originale per conquistare anche il palato dei più esigenti.

Un parterre davvero esclusivo per un appuntamento unico nel suo genere a cui è invitata a partecipare tutta la cittadinanza. Il ricavato della vendita dei biglietti (a partire da 90€, https://bit.ly/2ZwIXs9) della cena “20 Cuochi” andrà infatti a sostenere, concretamente, il progetto AdG “Fare Formazione giunto al terzo anno, con l’ambizione di aprire ad altri istituti e attività inerenti. Un ciclo di percorsi formativi d’eccellenza che vede gli Ambasciatori del Gusto impegnati in prima linea nell’attività didattica per allievi e insegnanti delle scuole alberghiere. Un contributo reale alla formazione in ambito ristorativo con l’obiettivo di trasferire ai giovani che saranno i cuochi, i pizzaioli, i pasticceri, i camerieri, i maître d’Italia del domani le tecniche migliori, ma soprattutto la consapevolezza di come svolgere il mestiere al massimo livello, imparando anche a gestirne le difficoltà, grazie alla condivisione di esperienze e suggestioni.

La conduttrice Tessa Gelisio farà da madrina alla serata durante la quale si svolgeranno anche due speciali premiazioni. L’Associazione assegnerà – per la prima volta – il Premio “Ambasciatore del Gusto – Anno 2019”, destinato all’associato che durante gli ultimi dodici mesi si è più distinto in termini di entusiasmo e condivisione degli scopi associativi e premierà anche il vincitore del Bando Premiare l’Eccellenza, destinato alle microimprese che hanno sviluppato progetti a beneficio della filiera agroalimentare.

Per acquistare il biglietto, https://bit.ly/2ZwIXs9
Per informazioni, scrivere a info@ambasciatoridelgusto.it


Olio EVO, quando il prezzo è giusto

Qual è il prezzo giusto per l’olio extravergine di oliva? La domanda è solo apparentemente semplice. La risposta è, infatti, complessa. E non può essere altrimenti dal momento che sul mercato si trova olio estravergine di oliva a prezzi disparati, addirittura a un prezzo più basso di quello che dovrebbe essere il suo costo all’origine. Come è possibile tutto ciò? Lo abbiamo chiesto a Vincenzo Rutigliano, giornalista di Agrisole/Il Sole 24 Ore che afferma che il prezzo giusto per l’olio extravergine d’oliva non può essere inferiore ai 7-7,50 al litro.

IL PREZZO DELL’OLIO EVO. «Per il prezzo all’origine gli indici Ismea sono abbastanza chiari. Ed è da quelli che bisogna partire. Perché i prezzi al consumatore sono molto diversi a seconda del canale di vendita», attacca Rutigliano. «Per approfondire la questione del prezzo all’origine faccio riferimento ai prezzi dell’olio evo sulle piazze pugliesi che, a partire da quella di Bari, vantano il primato mondiale nella produzione con il 40% della produzione nazionale. A metà agosto 2019 gli indici Ismea della piazza di Bari dei prezzi all’origine al netto della consegna e del confezionamento era di 5 euro al kg per prodotto convenzionale, non Dop, perché non esistendo per varie vicissitudini il Consorzio di tutela della Dop Terra di Bari non ci sono rilevazioni ufficiali della Dop anche se il prezzo all’origine secondo l’Ismea è di 5,60 euro a kg. Il prezzo degli altri oli pugliesi erano Lecce a 3,90, mentre il prezzo dell’olio lampante (con acidità superiore al 2%, ndr) che è il risultato di un olivicoltura non di pregio a causa dell’epidemia di Xylella è di 1,60/1,70», continua. «Detto questo, partendo dal prezzo all’origine e aggiungendo i costi di confezionamento e distribuzione, e considerando un margine di redditività decente il prezzo dell’olio extravergine di oliva in una piazza in cui l’olivicoltura è di pregio, ovvero quella in cui la pianta viene manutenuta, dovrebbe essere dai 7 ai 7,50 euro al litro e mai inferiore ai 6 euro». Questi prezzi fanno riferimento a cultivar di pregio anche in termini organolettici come possono essere, aggiunge Rutigliano, «dell’area meridionale».

FRODI E SOFISTICAZIONI. Com’è possibile, allora, che un olio extravergine vergine di oliva di olive raccolte in Italia possa essere venduto a prezzi molto inferiori? «Al di là dei meccanismi della Gdo che usano le proprie leve commerciali per gli acquisti e comunque garantisce la tracciabilità del  prodotto, la cronaca si occupa spesso delle frodi alimentari che in qualche caso possono determinare prezzi fuori mercato. Nell’ultima campagna pugliese, per esempio, tra danni della Xylella e gelata del 2017 che ha quasi azzerato la produzione olivicola del Nord Barese la materia prima è stata davvero poca, al contrario i volumi di produzione sono stati consistenti. Ciò significa che è arrivato olio non pugliese, poi spacciato per tale. Di fatto il problema delle frodi e delle sofisticazioni è un problema serio e non certo nuovo», fa osservare Rutigliano.

INFORMAZIONE AL CONSUMATORE. «Di informazione ce n’è tanta, forse troppa, e il consumatore è ben consapevole che, al di là delle informazioni in etichetta, lì dove il prezzo è basso qualcosa non torna», continua Rutigliano che propone, invece, un’altra questione: Il consumatore è mosso dalla leva prezzo da quella salutistica? «Ormai tutti conoscono l’importanza della dieta mediterranea e, nell’ambito di questa, il valore nutrizionale dell’olio extravergine di oliva. Se quest’ultimo è di bassa qualità non ha le proprietà organolettiche utili e chi sceglie un’olio evo facendosi attrarre dalla leva del prezzo sa bene cosa sta comprando».

I RISTORATORI. Anche i ristoratori sanno bene cosa comprano. E anche in questo caso se è la leva del prezzo a muovere l’acquisto, vale quanto già detto per tutti i consumatori. Esistono, comunque, regole ferree per l’olio da mettere a tavola come l’etichettatura secondo la normativa vigente, il tappo antirabbocco e un sistema di protezione che non ne permetta il riutilizzo dopo l’esaurimento del contenuto originale indicato nell’etichetta. Tutto questo non vale per gli usi di cucina e di preparazioni di pasti. «Come per il vino, poi, ci sono olii pregiati il cui prezzo può essere molto alto arrivando a costare anche 40 euro al litro – conclude Rutigliano –. Oli da usare in gocce come profumi di lusso».

Mariella Caruso


Dop e Igp fanno volare reputazione e valore dei prodotti. Attesa per 33 nuovi riconoscimenti

La pitina friulana, salume a base di carni ovicaprine o di selvaggina ungulata, conservata grazie a un processo di affumicatura e a uno strato protettivo di farina di mais, il marrone di Serino tipico di alcune zone dell’Irpinia e del Salernitano, il cioccolato di Modica e la lucanica di Picerno, salsiccia del Potentino, sono i prodotti dell’agroalimentare italiano ad aver ottenuto il riconoscimento Igp nel 2018. Si tratta degli ultimi quattro della lunga lista dei 299 fin qui tutelati dall’Unione Europea con uno dei tre marchi (Dop, Igp e Stg) che identificano i prodotti di qualità agricoli e alimentari disciplinati dal Regolamento dell’Unione Europea 1151 del 21 novembre 2012.

Per capire come può cambiare la percezione di un prodotto e il suo impatto economico sul mercato dopo l’ottenimento di uno dei riconoscimenti europei abbiamo parlato con Antonio Scivoletto, direttore generale del Consorzio di tutela del cioccolato modicano, prima (e fin qui unica) Igp della classe 2.2, ovvero cioccolato e prodotti derivati, e con Benito La Vecchia, presidente del Consorzio di tutela della ricotta di bufala campana Dop che, pur avendo ottenuto la Dop il 20 luglio 2010 solo da poco meno di due anni è al lavoro sulla promozione del prodotto.

Il cioccolato di Modica Igp. Non è stato semplice per il Consorzio di tutela del cioccolato modicano arrivare al riconoscimento dell’Igp. «La prima richiesta presentata nel 2006 fu bocciata nel 2009 perché mancavano i presupposti per ancorare la produzione al territorio», racconta Antonio Scivoletto che del Consorzio è direttore generale dal 2010. «Da quel momento è stata necessaria un’attività di lobbing per riuscire a fare modificare il regolamento europeo sui regimi di qualità», spiega il dg che ha lavorato in questi anni all’inserimento nell’allegato 1 del Regolamento comunitario della classe del cioccolato e prodotti derivati. Gli altri passaggi verso il riconoscimento hanno riguardato la stesura del disciplinare di produzione, «che, oltre alla tecnica di lavorazione, stabilisce che il prodotto deve essere costituito di pasta amara di cacao nella percentuale da 50 a 99%, zucchero dall’1 al 49% e aromi naturali, sale e frutta secca. Il disciplinare stabilisce, altresì, che il produttore possa indicare nella ricetta anche il Paese di origine delle fave utilizzate per la produzione della pasta amara di cacao». A cambiare, dall’iscrizione nel registro europeo delle Igp, è che «adesso il cioccolato di Modica è soltanto Igp, altrimenti non può esistere. Al momento, avendo ottenuto la registrazione il 15 ottobre 2018, siamo nei 18 mesi di transizione e servirà, però, almeno un altro anno per pulire il mercato dai prodotti non a marchio Igp». Dal riconoscimento però sono calate le aziende aderenti al Consorzio di Tutela. «Dai 14 associati del 2010 il Consorzio era arrivato ai 42 pre-riconoscimento. Attualmente le aziende autorizzate a produrre cioccolato di Modica Igp sono 22 perché alcune, per le quali la produzione era accessoria, hanno deciso di lasciare per la difficoltà di produrre secondo le regole previste dal disciplinare». Economicamente non c’è ancora un dato che fotografi la situazione post riconoscimento. «Tireremo le prime somme a giugno 2020, ma di certo ci sono 12 milioni di barrette prodotte nel 2018 contro le 400mila del 2003 e i 2,5 milioni di contrassegni consegnateci dalla Zecca dello Stato che faranno di un prodotto unico uno ancora più pregiato. Non a caso Modica, avendo ottenuto il primo e fin qui unico riconoscimento concernente il cioccolato vanta il primato di Capitale europea del cioccolato».

La ricotta di bufala campana. Non si tratta di una Dop recente ma, come spiega il presidente del Consorzio di tutela Benito La Vecchia, «il riconoscimento è stato di fatto conservato in un cassetto fino al febbraio 2016. Soltanto dopo quella data è stato costituito il Consorzio». Il motivo? Forse dipende dal fatto che la ricotta è un prodotto accessorio della mozzarella di bufala campana, prodotto Dop dal 1996. «La produzione della ricotta di bufala campana è simbiotica a quella della mozzarella – chiarisce La Vecchia -. Si produce, infatti, con il siero dolce derivato dalla caseificazione del latte di bufala adoperato per la produzione della Mozzarella di Bufala Campana Dop e fino a non poco tempo fa era un prodotto che veniva regalato e, forse per questo, non veniva valorizzato. Di fatto anche se, sin dal momento in cui è stata richiesta l’iscrizione della Dop, tutti ci credevano nessuno si è davvero impegnato nella valorizzazione della ricotta di bufala campana». La costituzione del Consorzio di tutela ha cambiato le cose. «I caseifici associati si sono già più che raddoppiati. Dai 6 del 2016 siamo arrivato ai 13 attuali. A settembre, poi, sono previsti altri 4 ingressi per arrivare fino a 20 consorziati», continua il presidente La Vecchia, classe 94, titolare del caseificio Il Casolare ad Alvignano dove accoglie anche i turisti che così possono assistere alla produzione sia della mozzarella, sia della ricotta di bufala campana. «I dati economici disponibili parlano chiaro, l’aumento di valore del prodotto è stato del 120-130%, la produzione del 2018 è stata di circa 60.000 kg con una vendita al consumatore che si aggira tra i 10 e i 12 euro al chilo», continua il numero uno del Consorzio che ha già ben chiari i prossimi obiettivi. «Ci concentreremo sulla promozione e sulla divulgazione anche nei confronti dei produttori di mozzarella di bufala Dop. Ci piacerebbe – conclude – che tutti, insieme alla mozzarella, producessero anche ricotta di bufala Dop».

Mariella Caruso


L'anguria, regina dell'estate anche in tavola

Che estate sarebbe senza anguria? Decisamente triste. L’anguria, o cocomero che dir si voglia, o ancora citrone, popone, mellone, muluni e le altre decine di nomi dialettali con cui spostandosi lungo lo Stivale viene identificata, è il simbolo dell’estate. Come cetriolo, zucchine e melone, anche l’anguria è una pianta della famiglia delle cucurbitacee, ma il rosso della sua polpa soda ha un appeal decisamente diverso. Amata da tutti, a patto di non essere incorsi in qualche mal di pancia per eccesso di consumo, aiuta a combattere il caldo, la stanchezza cronica ed è buonissima da mangiare al naturale, preferibilmente fredda.

Parlare, però, di anguria (Citrullus lanatus) è una generalizzazione. Le varietà coltivate di questo frutto, conosciuto sin dal tempo degli egizi che in Italia è un dono dell’invasione moresca in epoca medievale, sono almeno una cinquantina. Senza contare le tante (nuove) sementi frutto della ricerca che vengono immesse sul mercato. In Italia alcune varietà come il cocomero pontino, l’anguria di Gonnos o Gonnosfanadiga e l’anguria di Siracusa sono Pat, ovvero prodotti agricoli tradizionali italiani inseriti nell’elenco del Mipaaft. E la promozione passa anche dall’alta ristorazione. Lo chef Simone Nardoni, per esempio, ha interpretato il cocomero pontino nel corso delle iniziative di promozione sotto forma di Carpaccio di cocomero, gazpacho e Riso in bianco con caprino e anguria locale.

Indubbio, poi, che l’anguria evochi ricordi di serate estive e sortite nei chioschi degli “angurai” (figura mitica anche se il vocabolario non fa cenno della definizione) che stanno via via scomparendo. Ma la stessa ha anche molte declinazioni gourmet. Qualche anno fa era balzato agli onori delle cronache il costosissimo prosciutto di anguria affumicata di Duck’s Eatery a New York, ma Davide Oldani proponeva di farlo arrosto in padella per un’insalata ferragostana estiva già nel 2012. Negli archivi gastronomici degli chef ci sono le Mazzancolle, bitter e cocomero di Gianluca Gorini, l’Anguria e tonno con timo lime di Antonio Pisaniello e l’ostrica virtuale di Davide Scabin la cui base è un cubetto di anguria che con bottarga di muggine e mandorla tostata ricordava il sapore del mollusco. Tra le interpretazioni gourmet di questo frutto ci sono anche il classico Cocomero e pomodoro di Niko Romito, il Biscotto di parmigiano e anguria di Daniel Canzian, l’Anguilla/anguria di Takeshi Iwai. Ma il must dell’estate 2019 è il boccone di Anguria Acetata, con aceto di vino bianco, pepe nero e peperoncino, di Floriano Pellegrino.

Mariella Caruso


Diminuiscono i campi di grano, aumenta la sensibilità

Nell’Italia in cui c’è sempre maggiore attenzione per la produzione di pane e pasta con farine di qualità come quelle di Felicetti e Pastificio dei Campi, la superficie destinata al re dei cereali continua a diminuire, seppur con una sostanziale differenza tra quella destinata al grano tenero che continua a crescere e quella votata al grano duro che, al contrario, diminuisce. In dieci anni la superficie totale coltivata a grano è calata di quasi mezzo milione di ettari passando dai 2.289.051 ettari del 2008 agli attuali 1.821.725. La produzione, invece, si è ridotta in dieci anni di quasi due milioni di tonnellate attestandosi a poco più di 7 milioni di tonnellate contro le quasi 9 milioni del 2008. L’Italia è al 21° posto tra i produttori mondiali nella classifica 2018 della Fao che vede in testa Cina, India e Federazione Russa. Classifica che cambia notevolmente se si tiene in considerazione soltanto la produzione di grano duro perché, in quest’ultimo caso, l’Italia è seconda dietro al Canada, paese quest’ultimo forte di un raccolto di 38 milioni di tonnellate.

A disincentivare il lavoro dei contadini è la remunerazione che non supera i 185 euro a tonnellata anche a causa delle importazioni nel nostro Paese. A aumentare, però, è la coltivazione dei cosiddetti grani antichi. Secondo i dati diffusi a fine 2018 dall’Aidepi 5000 ettari sono coltivati a “grani antichi” con un aumento del 400%. Più che di grani realmente antichi, nel senso stretto del termine, in molti casi è più corretto parlare di grani autoctoni, ovvero di varietà che nel tempo erano state soppiantate. Se del Timilia e del Russello, che è un grano tenero, c’è traccia negli antichi scritti, il Senatore Cappelli ha da poco festeggiato i suoi primi cento anni. Sono tante, di fatto, le varietà che i contadini hanno messo a dimora perché, nonostante la resa per ettaro più bassa del convenzionale, le varietà sono più resistenti, possono essere coltivate biologicamente e se ne ricava grano per farine di qualità superiore come quelle del Molino Quaglia e del Molino Rachello.

Tra le varietà piantate nei campi di Galati Mamertino, Comune del Nord-est dei Monti Nebrodi, in seno a un progetto in cui sono stati coinvolti gli Ambasciatori del Gusto siciliani Pasquale Caliri, Francesco Arena e Lillo Freni ci sono oltre il Senatore Cappelli e il Russello, anche Perciasacchi, Bufala Nera e Maiorca. «Siamo stati chiamati a dare una mano a questo progetto di rinascita di alcuni terreni incolti da un centinaio d’anni da Giacomo Emanuele, un ex apicoltore che ha visto morire tutte le sue api probabilmente a causa dei prodotti chimici utilizzati nei campi. Abbiamo partecipato alla semina, abbiamo visto crescere il grano e partecipato alla mietitura. Personalmente ho imparato moltissimo perché conoscere le cose attraverso i libri e toccarle con mano è tutta un’altra cosa. È stato emozionante ascoltare i racconti della semina dalla voce degli anziani contadini», racconta Caliri che, così come gli altri Ambasciatori, utilizzerà parte di quelle farine per alcune delle loro preparazioni.

A utilizzare le farine che ricava dai grani coltivato negli undici ettari di terreni di famiglia che si estendono nei pressi della pizzeria di cui è patron e maestro pizzaiolo è l’Ambasciatore del Gusto Antonio Polzella. Siamo a Rosignano Marittimo, in provincia di Livorno. «Coltivo farro monococco e tre tipi di grani antichi: il Senatore Cappelli e due originari di questa zona, il Gentil Rosso e il Verna», ci dice Polzella che va oltre la coltivazione. È in un piccolo molino a vista all’ingresso del suo locale, infatti, che il grano che coltiva viene trasformato in farina per diventare ingrediente principale di alcune delle sue pizze. «Inizialmente – continua – non mi occupavo della molitura del raccolto, poi ho deciso che volevo fare tutto da me in modo da occuparmi personalmente di tutto il processo per una pizza a chilometro zero e, in particolar modo per l’orgoglio di poter essere un pizzaiolo-contadino».

Mariella Caruso